Sindrome della capanna (o del prigioniero): ecco perché potremmo non avere affatto voglia di uscire di casa e tornare alla nostra vita precedente

La chiamano la “sindrome della
capanna”: le persone che hanno vissuto sotto stress, ma che hanno gestito bene
il confinamento, con il tempo per loro stessi, i loro cari e i loro hobby e a
cui il ritorno alla normalità genera molto più stress.
Oggi è il tanto atteso 4 maggio e si allenta il
lockdown anche se, lo ribadiamo, non è un “libera tutti”. Riprendono
alcune attività, si può fare attività all’aria aperta e visitare i “congiunti” ma c’è chi, proprio ora, si tira indietro
per paura o perché ormai si è adattato a nuovi ritmi.
Abbiamo atteso a lungo la possibilità di tornare ad una
parvenza di normalità e quando questa si inizia ad intravedere c’è chi scappa.
Non è qualcosa di particolarmente strano, in realtà, è del tutto normale. Dopo
mesi di quarantena c’è chi vive l’ansia di riprendere i ritmi
precedenti, la paura di uscire e, magari, c’è anche chi ha scoperto che la
vita in casa non è poi tanto male come si pensava all’inizio.
Insomma il ritorno alla normalità non è da tutti gradito, in
particolare per la pressione di dover nuovamente lanciarsi nel
mondo e riprendere il solito tran tran. Le nostre case, in questo
periodo, sono diventate un rifugio, ci hanno tenuto al sicuro dal coronavirus
ma anche lontani dal mondo, la cui routine spesso ci stressa.
Come ha spiegato al El País, Timanfaya Hernández,
del Collegio Ufficiale di Psicologi di Madrid:
“Stiamo percependo un numero maggiore di persone in
difficoltà con l’idea di uscire di nuovo. Abbiamo stabilito un perimetro di
sicurezza e ora dobbiamo abbandonarlo in un clima di incertezza”.
Come ha ricordato la psicologa spagnola:
“Viviamo nella società del fare: fare sempre cose, produrre
sempre”
La quarantena ha permesso alle persone di avere maggiore
tempo per se stesse, i loro cari e i loro hobby, ed è anche per questo che ora
possono essere riluttanti a tornare alla frenetica vita precedente.
E poi c’è anche chi, mal volentieri, si è abituato
alla nuova routine e a ritmi differenti da cui ora, ugualmente, ha paura di
allontanarsi. L’isolamento è spiacevole ma i nostri meccanismi di
sopravvivenza ci hanno permesso di contrastare quel sentimento e di adattarci
al confinamento.
In questo caso si parla di “sindrome della capanna” (o
del prigioniero, se preferite). Con questi termini si intende l’evitare il
contatto con l’esterno dopo un lungo isolamento, come appunto quello sperimentato
in occasione della diffusione del coronavirus.
Il termine “sindrome della
capanna” è stato coniato in quelle regioni degli Stati Uniti in cui il rigido
inverno costringe gli abitanti ad una sorta di “letargo”, sebbene non sia
pienamente accettato dagli psicologi.
“Conosciamo casi di persone
che, dopo un ricovero in ospedale o essere stati in prigione, perdono la
sicurezza e temono ciò che è fuori” ha spiegato la Hernández.
Come ha dichiarato a Vice Laura
Guaglio, psicologa e psicoterapeuta specializzata in gestione e superamento di
eventi traumatici ed emotivamente stressanti:
“L’idea di sentirsi a
disagio in una situazione che prima era percepita come la normalità può creare
in noi un senso di inadeguatezza. Ci si domanda “Come mai prima riuscivo (a uscire)
e adesso no?” La differenza sostanziale è che adesso la persona è stata
sottoposta a un evento stressante che, nel bene o nel male, ha modificato il suo modo di comportarsi, di vedere le
cose. Probabilmente è una modifica temporanea, ma bisogna prenderne atto.
(…)la situazione che stiamo vivendo è talmente eccezionale e collettiva che il
comprensibile timore, più o meno accentuato, di uscire di casa può essere una
delle più comuni reazioni, anche da parte di quelle persone che potremmo
definire ‘più equilibrate emotivamente’”.
Sempre la dottoressa Guaglio
sottolinea poi che:
“Ci sono diversi fattori che
a livello individuale, in questo specifico caso, entrano in gioco ed alimentano
la voglia di rimanere tra le mura di casa. Innanzitutto, il rifiutarsi di
vedere o accettare che i propri riferimenti siano mutati sensibilmente. Se esco
mi rendo conto di com’è cambiato il mondo che conoscevo. Vedo la città deserta,
i negozi chiusi, le persone che incontro sono munite di mascherina, guanti. La
nuova realtà è impattante, può sconcertare, disorientare, potremmo rigettarla.
A questo, poi, si unisce un fattore molto più prosaico: a livello
neurobiologico e fisico, meno movimento faccio, meno esco di casa, meno avrò
voglia di uscire. A cui, ancora, si sommano le paure sulle probabilità di un
contagio”.
Sebbene ci si aspetti che
queste posizioni di resistenza interna siano in minoranza, sorge un dilemma: se
nessuno uscisse e scegliesse di vivere in modo diverso, i consumi calerebbero e
l’economia ristagnerebbe. Come rendere la ruota economica compatibile con una
vita meno consumistica?
Non sembra che dobbiamo
preoccuparci di questo. Come sottolinea l’economista José Carlos Díez, ci sono
precedenti:
“È successo a New York dopo
l’11 settembre. Nelle prossime settimane ci saranno molte persone che non
usciranno e smetteranno di avere paura solo quando i morti a causa del virus
scenderanno e i media smetteranno di parlare della pandemia a tutte le ore. Ci
vorrà del tempo”.
Importante comunque è
affrontare le proprie paure e, se si ritiene necessario, contattare un
professionista che fornirà gli strumenti utili per trasformarle in alleate e
poter così superarle.
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